“Tutta l’arte è imitazione della natura” (Seneca)
- CARTE
Il sostanziale numero di carte, realizzate parallelamente alle tele, rappresenta a volte un approfondimento dello stesso tipo di ricerca tematica espressa nei dipinti, a volte, invece, una fonte per nuovi spunti.
Non si può parlare di opere minori, dato che esse, come detto, in molti casi sono il preambolo fecondo di una nuove fase creativa, soprattutto in riferimento ai grandi monocromi realizzati a partire dalla fine degli anni Settanta.
Appartiene agli anni tra il 1954 e il 1959 la serie delle tempere su carta, in cui il legame con la natura trova ancora nei titoli e nelle dolci tonalità una lontana eco, seppur smorzata dal turbinio di schizzi e sgocciolature che si compenetrano.
Nelle carte successive (1960-2002), il linguaggio evolve verso la ricerca informale, ma si nota come contemporaneamente comincino ad emergere anche quelle geometrie che saranno poi le strutture portanti dei dipinti della seconda fase pittorica, quella dei grandi monocromi.
Nelle opere più recenti viene elaborato e preparato, variando nelle dimensioni, il terreno delle tele acriliche monocrome, dalle indiscutibili soluzioni cromatiche, imprevedibili e coinvolgenti. Qui la materia è espressa da colpi di gessetto, tempera o acquarello e finalizzata alla realizzazione di nuovi tessuti percettivi e nuove melodie di colore.
- COLLAGES
Nati come sperimentazione privata, i collages, prodotti principalmente tra il 1958 e il 1963, rappresentano il raggiungimento di un’ambivalente indagine estetica.
Già nelle prime opere, realizzate nel 1958, le astratte e raffinate architetture di semplici fogli giustapposti e sovrapposti, sembrano essere percorse da guizzi vitali che nel tempo si faranno via via più marcati.
Il ritmo aumenta e la struttura diviene dinamica con l’affiorare, tra gli strati di carta, di nuove componenti decodificabili (fotografie, lettere, oggetti tridimensionali).
I simultanei stimoli percettivi e di associazione alla realtà quotidiana, che imprimono ai collages un’ironica energia da non-sense, rendono le opere affini alla decontestualizzazione new-dada.
Al tempo stesso, tuttavia, i collages si fondano sull’intimo rapporto tra l’autore e la fisicità dei materiali impiegati che, come sempre, non richiamano un simbolo o un significato preciso, ma continuano ad essere sempre e prima di tutto materia e superficie.
“Il mio uso di materiali inconsueti nei collages, nasce soprattutto da un’esaltazione della superficie come fisicità presente e incombente. L’uso anche di oggetti non ha nessuna particolare intenzione simbolica. I collages” conclude l’autore “non hanno alcun riferimento alla realtà e sono perfettamente astratti, come è astratta la vera arte contemporanea“.
La produzione di tali opere, si alterna ai grandi quadri informali, pur con evidenti differenze: dalle dimensioni ai materiali, dall’impatto cromatico a quello spaziale. I collages possiedono una ritmica e una lingua diverse da quelle dei quadri. Nei grandi lavori su tela dominano spazi vasti e austeri come deserti: il silenzio è la loro condizione essenziale, ogni accumulo di materia è una tumefazione o una cicatrice, tutto è ormai accaduto e il campo pittorico è un paesaggio dopo la battaglia. Nei collages il ritmo aumenta di intensità: non tutto è accaduto anzi sta accadendo. Ma ciò che maggiormente differenzia i quadri dai collages è la presenza in quest’ultimi di una vena ironica leggera e sottile come una velatura.
Questa alternanza creativa con i dipinti, questa necessità di riversare nei collages i propri intimi silenzi privati, cifra a tutti comune, ha portato per molto tempo a una ritrosia nell’esporli.
“Nel 1958 inseguivo una certa idea, un’idea che era una visione. Quest’idea coincideva talmente con la mia esistenza e al tempo stesso si spingeva talmente fino al limite di una mera ipotesi intellettuale, che in ogni collage avevo la sensazione di non averla mai messa a fuoco e soprattutto che potesse generare un contrasto con la poetica della mia pittura di quegli anni. Tutto quel lavoro, quasi un colloquio con me stesso, è rimasto così per molti anni celato”. (Piero Raspi)
I collages, come testimoniato dal critico Giovanni Carandente, sono rimasti per anni negli archivi dell’autore. “…una serie di opere tenute celate nelle cartelle private dello studio di Raspi, come accadde per Picasso, allorché gli atelier del pittore rivelarono aspetti che erano rimasti ignoti. Tali opere compongono una singolare antologia che fa da legame tra le opere note del periodo giovanile (tele informali) e quelle della seconda fase, ripresa alla fine degli anni Settanta (monocromi). La visita che feci alla casa romana e allo studio di Piero, mi lasciò letteralmente interdetto. Il folto gruppo di opere mai viste non faceva che confermare quanto scritto su di lui anni prima: l’elogio della sua ricerca severa, della sua leopardiana visione delle cose, del suo stile che fondeva il vibrante tonalismo morandiano con l’ampio e franco gesto dei pittori americani dell’Action Painting. Tali opere, realizzate in maniera misteriosa, sotterranea, nascosta, mi colpirono per la loro morbidezza, per il loro aspetto vellutato”.
- QUADRI
Nel periodo della formazione giovanile, tra il 1950 e il 1954, le tele traggono insegnamento dalla volumetria cezanniana, dalla pittura tonale di Morandi e, soprattutto, dallo studio delle strutture post-cubiste.
L’incontro con Francesco Arcangeli e l’adesione alla poetica dell’Ultimo naturalismo (1955), comportano un primo cambiamento nella pittura, che pur persistendo in un sensibilismo cromatico, ora tende a una maggiore libertà nell’uso della pasta pittorica, che gradualmente si inspessisce, diventando più densa e grumosa.
Il periodo dell’Ultimo naturalismo è, infatti, la chiave di volta per capire la sua maturazione informale che dal 1956 diviene il suo riferimento principale. L’esigenza di aumentare la consistenza pittorica, rivela un’ulteriore attenzione per il valore materico, autonomo da qualsiasi contingenza. Nel corso del 1958, e ancora di più nel ’59, la pittura si fa arditamente ermetica, scabra ed essenziale e la materia viene data per sé stessa con la propria energia e il proprio colore, fissato su poche e basse tonalità. Le larghe spatolate costituiscono robusti impaginati geometrici e le superfici vengono alterate da increspature, incisioni e aggregazioni.
La sua ricerca artistica, quindi, lo porta a comporre tele” dipinte a pasta piena, con grande risalto materico, con toni fondi e cupi e sciabolate di un magma monocromatico su cui si addensano le ombre ma anche affiorano spiragli di una luce fredda e tagliente” (Giovanni Carandente).
Ora sembra entrare in contatto con la materia in maniera ancora più esplicita che in passato, giungendo ad afferrare un’ “inerzia grave come di un tempo immobile” (Maurizio Calvesi). Espressione di tale poetica è, ad esempio, l’opera “Tatuaggio cronico” del 1959.
L’Informale materico verrà poi risolto in piani lisci di colore che lasceranno spazio a inserti di realtà sempre più invadenti, come nel dipinto “Nozze di radium” del 1964.
Con la seconda parte degli anni Sessanta, gli echi informali scemeranno sempre più e con essi la produzione pittorica. Di questo periodo vanno ricordate l’opera “Giardino a Bear Run” del 1967 e “Rappreso nero” del 1968, che chiuderanno la prima intensa fase del suo lavoro.
A partire dalla fine degli anni Sessanta, l’attività artistica si focalizza soprattutto sulla produzione di opere su carta, preludio al secondo fervido ciclo pittorico: i monocromi.
Anche se tra il 1978 e il 1986 vengono realizzate alcune tele, la produzione continua a concentrarsi sulla realizzazione delle carte che rappresentano a pieno titolo il punto di partenza della nuova fase creativa che riprenderà con vigore dalla metà degli anni Novanta, quando la realtà materica viene riproposta in assolute esaltazioni e trasparenze cromatiche che lasciano emergere i colori della preparazione. La luce vibra tra gli strati sovrapposti di pennellate, dal carattere concitato, che realizzano un “luogo” pittorico dell’intensità luminosa, in cui la poetica intima riesce ancora una volta a chiudersi in lirici silenzi.
“In esse, si scorge una insistita meditazione sulla spoliazione formale e sull’interna luminosità, un dolce vento sul deserto dei colori. Quella brezza che alita sugli scarni verdi, arancioni, blu e ocra fa vibrare il colore per il solo fatto che esso esiste. In questa rinnovata monocromia torna l’ascetico pittore di gioventù, che alla dialettica del chiaroscuro delle prime opere, sostituisce il rigore del minimalismo e con esso una rinnovata serenità”. (Giovanni Carandente)
- SCULTURA PARIETALE
Realizzata nel 2001 a Spoleto presso l’Albornoz Palace, la scultura parietale in acciaio si distingue all’interno della produzione artistica come un unicum sia per le dimensioni che per la novità del materiale scelto.
La genesi di questa eccezionale opera è così raccontata dal suo autore “Alla richiesta dell’amico Sandro Tulli di intervenire con una mia opera presso l’Albornoz Palace di Spoleto, la mia risposta fu, dispiacendomene, negativa. A giustificazione c’era l’impossibilità, pensavo, di affrontare metri e metri di parte con il mio modo di operare di quel periodo, ossia i colori acrilici. Tuttavia ripercorrendo a ritroso il mio iter artistico, ritornai agli anni a cavallo tra il ’50 e il ’60 e al mio uso del collage. Era per me una grossa tentazione poter trasferire le forme e le geometrie del collage su laminati metallici. Si trattava, ora, di selezionare un certo numero di opere che avessero una composizione dilatabile su una vasta superficie“.
Di qui la soluzione finale di tre grandi collages (C/26 Omaggio a Burri del 1961, C/52 del 1962 e C/48 del 1962) a lamine d’acciaio, tramite i quali la possente concretezza e imperturbabilità di questo materiale, viene vitalizzata ed enfatizzata dalla movimentazione dei piani, dai riverberi di luce e dall’inserimento di elementi colorati che, per contrasto e con grande energia, emergono qua e là nella composizione.
A proposito di tale scultura, osserva il critico Giovanni Carandente “...questi lavori non sono una decorazione d’ambiente, sono delle opere pensate in funzione di un certo spazio. Ogni opera d’arte ha bisogno del proprio spazio come è stato detto dai grandi filosofi della modernità a cominciare da Lichtenstein. Ogni opera di scultura o scultopittura o scultoarchitettura, parola inventata da Anthony Caro nel 1985 quando fece la torre della Tate Gallery a Londra, necessita del suo luogo. Ecco perché la sua torre, così come l’opera di Piero, è il resoconto della simbiosi scultura-spazio”.
Di seguito alcune immagini di Piero Raspi in visita alla scultura parietale presso l’Albornoz Palace di Spoleto.